Lioni, il nome, le origini
Chi apre la pagina di Wikipedia dedicata a Lioni e prova a leggere le notizie storiche si trova di fronte a un polpettone di luoghi comuni riciclati, di varie inesattezze e qualche (rara) informazione vera, il tutto messo sullo stesso piano con la formula: «Alcuni dicono..., altri invece...».
Primo luogo comune: la leggenda di Ferentino. La teoria secondo la quale nell’ alta valle dell’ Ofanto ci sarebbe stata una città sannita con questo nome, ripetutamente attaccata dai romani e infine distrutta durante la terza guerra sannitica, è un’invenzione dell’abate Santoli (Rocca S. Felice, seconda metà del ‘700) e del canonico Della Vecchia (Nusco, prima metà dell’800). Il Ferentinum di cui parla Tito Livio era in realtà Forentum, che si trovava nei pressi di Lavello.
Secondo luogo comune: i lionesi sarebbero i discendenti dei Liguri arrivati nell’alto Ofanto nel 180 a. C. Anche questa è una favola messa in giro da Della Vecchia. In realtà da noi i Liguri non ci sono mai stati. E’ vero che un considerevole numero di Liguri Apuani furono forzatamente trasferiti nei cosiddetti Campi Taurasini. Ma i Campi Taurasini si trovavano tra Benevento e Lucera. Quanto allo scioglilingua «Liguri-Liuri-Liuni-Lioni», è un’offesa all’intelligenza di chi legge.
Terzo luogo comune: di Lioni si parlerebbe in un documento longobardo dell’anno 837, con il quale veniva donata al monastero di S. Sofia di Benevento un’azienda agricola «in Leoni». Ma questo Leoni non era Lioni: era una località tra Apice e Calvi. Qui devo correggere anche un mio errore. In un articolo di alcuni anni fa ho scritto che Leoni si trovava in Molise. Invece l’edizione critica del Chronicon S. Sophiae curata da Jean-Marie Martin[i] dimostra senza possibilità di dubbio che mi sbagliavo.
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Al contrario di quello che si pensa, l’origine di Lioni è abbastanza ben documentata. Possiamo ricostruirla attraverso le notizie che Francesco Scandone recuperò dai Registri Angioini prima che andassero distrutti durante un bombardamento nel 1943. Queste notizie[ii] si riferiscono ad una serie di reclami che tra il 1289 e il 1306 i feudatari di Oppido inviarono al re Carlo II «lo Zoppo», per protestare contro i loro colleghi di S. Angelo. Costoro avevano disposto una serie di agevolazioni per chi avesse voluto andare a coltivare le terre sulla riva sinistra dell’ Ofanto. La cosa aveva fatto presa sui contadini di Oppido, molti dei quali effettivamente lasciavano i campi verso la montagna e si trasferivano dall’ altra parte del fiume.
Al tempo di cui parliamo tutta la parte dell’ attuale territorio lionese che sta tra l’ Ofanto e la montagna rientrava nel feudo di Oppido; l’ altra parte, quella sulla sponda sinistra, compresa l’ area del centro urbano, apparteneva invece a S. Angelo. Signori di Oppido erano da diverse generazioni i Frainella, nome latinizzato di una famiglia di origine normanna che nel suo paese si chiamava Fraisnel . All’ arrivo degli Angioini, nel 1266, i Frainella erano passati subito dalla parte dei nuovi padroni ed avevano conservato il titolo e i beni. Non così il feudatario di S. Angelo, che era rimasto fedele alla dinastia sveva ed era stato destituito. A partire dalla metà degli anni ottanta come signore di S. Angelo troviamo un certo Gerardo Divort un personaggio che Giustino Fortunato definisce «un provenzale arrogante» per via dei soprusi che era solito commettere nella zona di Rionero, dove amministrava le foreste demaniali . Divort, deciso a ricavare il massimo utile dalle sue nuove terre nella valle dell’ Ofanto, non si faceva scrupolo di sottrarre braccia al feudo vicino.
Nei secoli centrali del Medioevo la messa a coltura di terreni marginali e la costruzione di nuovi villaggi rurali erano operazioni abbastanza frequenti . Queste iniziative di solito venivano promosse dai signori stessi, ai quali un aumento del numero dei coloni sul proprio feudo fruttava maggiori entrate sotto forma di censi, canoni, tributi. Altre volte il popolamento di un’ area scarsamente abitata serviva a controllare meglio il territorio, per esempio garantendo la sicurezza di una strada, sorvegliando un confine, difendendo una regione dai briganti. Chi accettava di andare a stabilirsi nei nuovi insediamenti beneficiava di uno stato giuridico particolare: pagava meno tasse – almeno per i primi anni – ; godeva di una serie di franchigie; riceveva un lotto per farsi la casa e, a volte, anche un pezzo di terra da coltivare in proprio.
Sulla sponda santangiolese dell’ Ofanto c’era un posto chiamato Li Liuni («qui vulgariter nuncupatur Li Lyuni», dice un documento dell’anno 1300). Su Wikipedia è scritto che «probabilmente» il nome di Lioni deriva da quello del proprietario delle terre, Leone. Si tratta di pura invenzione e stupisce che questa cosa sia riportata nel Dizionario di toponomastica della UTET. Saggiamente Francesco Scandone annotava: «Il nome Liuni ... trae origine evidente da qualche antico monumento in cui devono essere effigiati dei leoni»[iii] . Effettivamente ancora agli inizi del Settecento all’ interno dell’ abitato di Lioni (la tradizione popolare dice: in cima al campanile) si potevano ammirare due magnifici leoni di pietra. Uno è quello, ora piuttosto malridotto, che si vede davanti al palazzo del municipio; l’ altro, come riferisce Roccopietro Colantuono, andò distrutto durante il terremoto del 1732 . Statue del tutto simili si possono vedere a Melfi, a Venosa, ad Ascoli Satriano. Si tratta di sculture funerarie provenienti da tombe romane di età imperiale. Di solito i Romani facoltosi che vivevano lontano dalle città si facevano costruire il monumento funebre nelle loro terre, in un luogo ben in vista. Alla tomba del padrone facevano corona le sepolture dei liberti e degli schiavi. Nelle campagne meridionali questo genere di sepolcreti era piuttosto diffuso. Nell’alta valle dell’ Ofanto ce n’ erano uno a Fontigliano , uno al Goleto , un altro a Monticchio dei Lombardi (la collina tra Rocca e il Quadrivio). Giuseppe Gargano, lo storico di Conza, riferisce che una coppia di leoni di travertino fu dissotterrata agli inizi del secolo scorso a Piano delle Briglie (la zona di Conza Nuova) .
L’ idea che al tempo dei romani la collina di Lioni venisse usata come luogo di sepoltura è avvalorata dalle due stele funerarie con l’ immagine delle persone sepolte che fino al terremoto del 1980 erano murate in due case del centro storico, in via Ricca e nel II vico Annunziata (una è stata recuperata e si trova ora nella mostra etnografica). Durante il Medioevo le tombe – come avvenne dappertutto – furono demolite per ricavarne pietre squadrate. I leoni, non essendo utilizzabili come materiale da costruzione, furono risparmiati e la loro presenza divenne un riferimento topografico. Nei documenti medievali Lioni è abitualmente indicato come «casale Leonum» o «de Leonibus», vale a dire «casale dei leoni».
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I feudatari di Oppido reclamarono più volte. La prima protesta di cui abbiamo notizia fu inoltrata alla corte napoletana nel marzo del 1289 e recava la firma di Giacomo Frainella . Non sembra però che abbia prodotto effetti apprezzabili. In ogni caso Giacomo non ebbe più la possibilità di seguire la faccenda perchè in quello stesso anno partì per la guerra contro i ribelli siciliani (la famosa «Guerra dei Vespri») e fu subito fatto prigioniero. Dietro pagamento di un congruo riscatto venne liberato, ma la brutta avventura gli abbreviò la vita: infatti nel 1292 come signore di Oppido figura suo figlio Filippo .
In quello stesso periodo cambiava anche il titolare del feudo di S. Angelo. Alla fine del 1288, mentre Divort, sempre a causa della guerra, si trovava in Calabria, i santangiolesi erano insorti contro il suo castellano e lo avevano ucciso. Il feudatario aveva preteso che i responsabili della rivolta venissero puniti in modo esemplare. Naturalmente dopo questi fatti la permanenza di Divort a S. Angelo era divenuta inopportuna, e così nel 1292 il feudo venne assegnato a Goffredo di Joinville, un esponente dell’ aristocrazia militare vicina alla corona. Ma neppure Goffredo ebbe molto tempo da dedicare ai suoi possedimenti: presto dovette raggiungere anche lui il fronte siciliano e nel 1296 cadde in combattimento. L’amministrazione dei beni di famiglia restò allora nelle mani della vedova, Filippa de Beaumont. A giudicare dai ricordi che ha lasciato, Filippa era una donna molto energica: impedì alle suore del Goleto di utilizzare per gli animali del monastero i pascoli di Fiorentino riuscì a conservare il possesso del casale di S. Bartolomeo, che un precedente feudatario di S. Angelo aveva usurpato al suo collega di Morra; soprattutto proseguì nella politica degli incentivi per far crescere il casale di Lioni, incurante delle proteste dei Frainella.
Il feudo di Oppido era ormai in piena crisi. Un accertamento fiscale stabilì che esso ultimamente dava una rendita di non più di 5 once d’ oro l’anno mentre la rendita del feudo di S. Angelo veniva stimata in 50 once I contadini ottennero una riduzione delle tasse, ma l’ emigrazione verso Lioni non si arrestò .
Nel 1297 Filippo comunicò che Oppido rischiava di perdere tutti i suoi abitanti e sollecitò nuovi provvedimenti contro la Beaumont . Il re diede mandato al giustiziere di trovare una soluzione, ma la cosa come al solito non ebbe seguito, tanto che nel 1298 Filippo reclamava ancora . Strapparono invece un provvedimento a loro favore i lionesi, ai quali venne riconosciuto il diritto di portare le bestie al pascolo nei boschi di Oppido. Nel 1306 la comunità ottenne un nuovo alleggerimento delle tasse: evidentemente la situazione era peggiorata ancora.
Mentre Oppido sprofondava nella sua crisi, l’ insediamento sull’ altra sponda del fiume si consolidava e si ampliava. Nel primo decennio del nuovo secolo Lioni aveva già una sua parrocchia che versava le decime alla Santa Sede . Da un documento conservato negli archivi delle collettorie – oggi diremmo esattorie – vaticane apprendiamo infatti che tra il 1308 e il 1310 il «clerus casalis de Leonibus» corrispose la somma di 9 tarì: meno di Morra, che pagò 18 tarì e 5 grani; ma più di Torella, che non arrivò a 6 tarì[iv].
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L’ unico manufatto dell’ epoca della fondazione del paese che sia arrivato fino a noi è il campanile della chiesa madre; solo la cella campanaria è stata ricostruita, e probabilmente modificata, verso la metà del Settecento.
Questo edificio ci trasmette una serie di informazioni assai interessanti. Sul prospetto nord si vedono chiaramente i resti di un muro tagliato e, tra i cinque e i sei metri di altezza, il segno della falda di un tetto inclinata verso via Diaz. Sulla stessa parete si interrrompe la continuità dello zoccolo che avvolge la base della torre. Ciò vuol dire che originariamente il campanile non era isolato, ma faceva corpo con la chiesa. Questa aveva un orientamento nord–sud, con la facciata rivolta verso la montagna. Il campanile era costruito in aderenza alla facciata, a sinistra del portale, e vi si accedeva non dalla strada, come oggi, ma dall’ interno della chiesa La cosa aveva una sua logica. La torre non era stata progettata solo per accogliere le campane, ma anche per servire, all’ occorrenza, come opera di difesa (lo conferma la presenza delle feritoie nei muri). Infatti, quando non c’ era un castello a proteggere il villaggio, in caso di attacco le donne e i bambini si radunavano in chiesa, confidando nella sacralità del luogo e nella solidità dell’ edificio . La torre campanaria di Lioni era collocata precisamente a difesa della porta della chiesa.
La struttura del campanile lionese imita quella del donjon, la caratteristica torre di difesa introdotta in Italia dai Normanni. Il donjon costituiva l’ ultima ridotta di un sistema difensivo nel caso in cui gli attaccanti fossero riusciti a superare le barriere esterne. Consisteva in un robusto edificio a pianta circolare o quadrata, sviluppato su tre o quattro livelli. Nelle fondazioni era ricavata una cisterna, che veniva alimentata con acqua piovana. Il pianoterra, privo di aperture verso l’ esterno, era adibito a magazzino per le provviste e per le armi. I piani superiori – ai quali si accedeva mediante un ponte levatoio o una scala in legno che poteva essere ritirata dall’ alto – erano attrezzati in modo da permettere ad un certo numero di persone di resistere per qualche tempo, in attesa dei rinforzi. Le aperture per la luce e l’ aria erano sempre molto strette. Il tetto, di solito, era praticabile ed era circondato da parapetti o da merlature. Sono dei tipici donjon i torrioni dei castelli di S. Angelo, di Rocca, di Montella; ricalca il modello del donjon la torre Febronia del monastero di S. Guglielmo.
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In che periodo fu edificato il campanile di Lioni? Su questo punto non abbiamo notizie documentarie. L’ analogia con i donjon normanni suggerirebbe di collocare l’ epoca della costruzione nel XII secolo. C’ è però un elemento architettonico che impone una datazione diversa, più recente. Si tratta delle feritoie. Le feritoie della nostra torre campanaria sono di un tipo particolare: sono più strette di quelle delle fortificazioni normanno-sveve; hanno i bordi in pietra di taglio; presentano nella parte inferiore un occhiello, sagomato in modo da permettere all’ arciere o al balestriere di battere anche le zone morte alla base dei muri. Con lo stesso disegno e la stessa tecnica sono realizzate le feritoie che si vedono nei torrioni dei castelli di Melfi e di Lucera. Di questi si conosce con precisione la data di costruzione. Il castello di Melfi continua a portare il nome di Federico II, ma in realtà fu interamente rifatto tra il 1277 e il 1284 . Quanto alla fortezza di Lucera, la sua ristrutturazione, disposta anch’ essa da re Carlo I d’ Angiò, fu ultimata nel 1283.
Le feritoie del campanile lionese sono dunque quelle in uso nell’ architettura militare angioina nell’ ultimo trentennio del XIII secolo. Sulla base di questo dato possiamo ragionevolmente ritenere che esso sia stato costruito – insieme alla chiesa – verso la fine del Duecento o, al più tardi, agli inizi del Trecento: praticamente nel periodo in cui il casale dei Leoni vedeva aumentare la sua consistenza demografica per via della fuga dei contadini da Oppido.
Durante i lavori di restauro fatti negli anni novanta del secolo scorso, ai piedi del campanile e sotto il sagrato sono stati trovati resti di sepolture. Di «ossa rinvenute nello spiazzo esistente davanti la Chiesa Madre e il Campanile» parla anche Roccopietro Colantuono. A che epoca risalgano esattamente queste deposizioni è difficile dire. Esse comunque testimoniano della continuità di una pratica che ha avuto origine sicuramente nel Medioevo. Infatti a partire dal VII-VIII secolo i defunti, che prima venivano portati fuori dai centri abitati, cominciarono ad essere inumati nelle cripte delle chiese o all’ esterno, a ridosso dei muri. I corpi venivano deposti in semplici fosse scavate nel terreno. Non sempre veniva impiegata una bara; in alternativa si usava rivestire internamente la fossa con sottili pareti in muratura. I personaggi importanti però non seguivano la sorte dei comuni mortali: le loro sepolture erano collocate all’ interno della chiesa oppure in cappelle a parte, fatte costruire da loro stessi.
La consuetudine di usare come cimiteri gli stessi luoghi di culto nasceva certamente da un atto di fede: essere seppelliti vicino alle reliquie dei santi, o comunque presso l’ altare, corroborava la speranza di salvezza Ma la cosa aveva anche un fine pratico: nei cimiteri era proibita ogni violenza, e questo creava intorno alla chiesa una sorta di spazio protetto che poteva tornare utile anche ai vivi
Angelo Colantuono
[i] Chronicon Sanctae Sophiae (cod. Vat. Lat. 4939,) a cura di J-M. Martin, Roma 2000. Il passo che ci interessa (VI 32, pp. 766-7) recita così: «...concedimus in Beatae Sophiae cenobio... ipsa curte ... de loco Leone Coban(te)». Il posto detto Leone Cobante attualmente si chiama Lo Covante ed è una frazione di Calvi.
[ii] F. Scandone, L’ Alta Valle dell’ Ofanto, Avellino 1957, pp. 358-60, docc. 15-29; Idem, L’ Alta Valle del Calore, Vol. I, Napoli 1911, p. 20 nota 2.
[iii] Scandone, L’ Alta Valle del Calore, cit.
[iv] «Rationes decimarum Italiae» nei secoli XIII e XIV. Campania, Città del Vaticano 1942, p. 371.
Ultimo aggiornamento
Venerdi 18 Giugno 2021